Vita, fortune e bugie di Jelly Roll Morton, l’inventore del jazz.
Alan Lomax, «Mister Jelly Roll. Vita, fortune e disavventure di Jelly Roll Morton, creolo di New Orleans, “Inventore del Jazz”», Quodlibet 2019, 368 pp.
“Lo senti questo riff? – disse – Ora lo chiamano Swing, ma è solo una piccola cosa che ho inventato un sacco di tempo fa.” Questa frase che ammicca dalla candida quarta di copertina di questo libro raccoglie l’essenza delle quasi 370 pagine che ricostruiscono la vicenda di una delle figure più emblematiche – e se vogliamo, mitizzate – della storia del jazz. Protagonista di questo volume è Jelly Roll Morton, al secolo Ferdinand Joseph LaMothe, pianista di New Orleans, personaggio il cui profilo si muove ambiguo tra il lascito musicale e la figura provocatoria di un artista che si autodefiniva “l’inventore del jazz”.
“Mister Jelly Roll” viene raccontato in queste pagine – per la prima volta (e meritoriamente) edite nel nostro paese da Quodlibet nell’ambito collana “Chorus” curata da Claudio Sessa – grazie al lavoro di Alan Lomax, grande etnomusicologo scomparso nel 2002 che ha contribuito in maniera fondamentale alla conoscenza delle espressioni musicali di matrice popolare che dal blues arrivano al jazz. Lomax incontra Morton nel 1938 in un piccolo club di Washington e, colpito da questo personaggio, gli chiede un’intervista che si protrae per settimane. Il lavoro di approfondimento, raccolta e indagine durò poi per decenni, andando oltre la morte del pianista sopraggiunta nel 1941. Nel 1950 il libro era finalmente pronto: in quelle pagine non c’era solo il jazz, ma l’intreccio di razze che permea gli Stati del Sud, la vita irregolare fra bordelli di lusso e saloon, la nascita dell’industria discografica e della cultura popolare fra Otto e Novecento.
Come evidenzia Stefano Zenni nella sua interessante introduzione: «Il libro Mr. Jelly Roll è stato per decenni l’unica biografia mortoniana da cui emergono con nettezza certi tracci caratteriali dell’uomo. Rafforzata da discutibili testimonianze di altri colleghi, ha modellato l’immagine dell’uomo come un narcisista, presuntuoso e soprattutto menzognero, sempre pronto ad aggiustare i fatti (a partire dalla sua data di nascita) elle necessità del proprio ego e della primogenitura nel jazz e nel blues.»
Al di là delle revisioni e delle verifiche storiche delle quali è stato oggetto, questo lavoro, come rileva Sessa nella sua “Nota”, «è da decenni uno dei “testi sacri” per chiunque si occupi di jazz [anche perché] l’ombra immensa di Jelly Roll Morton si staglia su buona parte di ciò che ascoltiamo, e non solo perché ogni jazzista non può far altro che continuare a “suonare del Jelly Roll”». (© Gazzetta di Parma)