Ravenna Festival sull’orlo del Novecento
Cavalleria rusticana, Pagliacci e Tosca hanno chiuso l’edizione 2017 del Ravenna Festival
L’insana passione autolesionista di Turiddu, la gelosia cieca e tragica di Canio, il desiderio sinistro e malato di Scarpia hanno mosso le fila dell’appendice autunnale del Ravenna Festival, ormai da qualche anno appuntamento che accompagna verso la stagione invernale il pubblico di una manifestazione arrivata alla sua ventottesima edizione. Seguendo le ultime tre repliche che, dal 24 al 26 novembre, hanno chiuso il cartellone 2017, siamo stati immersi in un progetto che, prendendo le mosse dal filo conduttore verista che legava i tre titoli operistici Cavalleria rusticana, Pagliacci e Tosca, ha completato il suo ventaglio espressivo chiamando in causa giovani dagli 8 ai 18 anni affidando loro una rilettura – o libera reinvenzione – delle opere di Mascagni e Leoncavallo, presentandola in apertura, come ideale prologo o inedita introduzione, delle loro stesse fonti.
Sotto l’etichetta “remix” ecco che un giovane che si fa chiamare Amore prende la parola per raccontare a chi è ancora più giovane di lui il mistero di un cuore irrequieto come quello di compare Turiddu, morto ammazzato per la sua incapacità di gestire le proprie pulsioni, oppure una scena in penombra, a mezza strada tra il cinema e il circo, viene animata dalle voci di giovani che discutono di gelosia, tra rap, pattini e breakdance. Una bella intuizione, quella di consegnare un’opera del passato a giovani ai quali viene chiesto di rileggerla con gli occhi e gli strumenti espressivi del presente, che sul palcoscenico ha trovato uno spazio con evidenti margini di sviluppo e che merita di essere coltivato, anche solo per l’entusiasmo e l’impegno espresso dai ragazzi coinvolti.
Venendo ai titoli principali, possiamo rilevare che la scommessa tipica della “trilogia d’autunno” – da sempre ancorata alla capacità di coniugare tre messe in scena in tempi ristrettissimi – ha trovato ancora una volta una soluzione funzionale, capace di assecondare sia i caratteri drammaturgici delle tre opere allestite, sia le esigenze tecniche che, in situazioni come questa, trasformano gli inevitabili compromessi in un valore aggiunto. Un dato che ha visto protagonista un team ormai affiatato e composto da Cristina Mazzavillani Muti alla regia, Vincent Longuemare, light design, David Loom, visual design, Davide Broccoli video e Alessandro Lai costumi.
Partendo da Cavalleria, possiamo dire che l’atmosfera sicula è stata evocata in maniera funzionale, con uno spazio delimitato da un fondale rappresentato dalla proiezione della facciata barocca di una chiesa e dalla piazza del villaggio siciliano, ritagliata nello spazio più prossimo al proscenio. In quest’ambito si sono mossi i protagonisti: l’adeguata Santuzza di Chiara Mogini, il Turiddu dalla voce non sempre limpidissima di Aleandro Mariani, oltre ai lineari Alfio (Oleksandr Melnychuk), Lola (Anna Malavasi) e Lucia (Antonella Carpenito).
La sera successiva per Pagliacci la scena è diventata un set cinematografico idealmente ispirato ai primordi della settima arte, un periodo tra fine Ottocento e inizio del secolo successivo sovrapponibile con la genesi dell’opera di Leoncavallo che data 1892. Un’intuizione interessante ma che sulla scena si è rivelata – a parte per l’efficiente giuoco d’ombre – un poco statica e ingessata. Chi, fuor di metafora, era veramente ingessato a un braccio da poco operato era il tenore Diego Cavazzin, capace nonostante questo handicap di restituire un Canio vocalmente sicuro ed espressivo nel tratteggio del suo drammatico personaggio, affiancato dagli altrettanto solidi Nedda e Tonio, rispettivamente Estibaliz Martyn e Kiril Manolov, e dagli adeguati Beppe di Giovanni Sala e Silvio di Igor Onishchenko… continua a leggere… (© Il giornale della musica)