Borges. Il tango, quel passo d’addio tra guappi e donne di vita
Jorge Luis Borges, “Il tango”, Adelphi 2019, edizione italiana a cura di Tommaso Scarano, pp. 170.
Jorge Luis Borges e il suo mondo
Il mondo poetico e letterario, colto e immaginifico, di Jorge Luis Borges ha attraversato il Novecento lasciando un segno culturale profondo, diffuso da un lato attraverso i lavori dello stesso scrittore argentino, dall’altro grazie alle suggestioni che la sua figura e la sua opera hanno esercitato sia in ambito letterario sia in altri campi dell’espressione artistica. In questo senso, per citare solo un paio di esempi, possiamo ricordare la figura del monaco cieco Jorge de Burgos, personaggio centrale de “Il nome della rosa” (1980) di Umberto Eco, il cui nome stesso è un riferimento diretto allo scrittore argentino – bibliotecario della Biblioteca centrale di Buenos Aires – divenuto non vedente a 55 anni; o ancora possiamo rievocare il film di Bernardo Bertolucci “La strategia del ragno” (1970), la cui vicenda trae spunto dal breve racconto “Tema del traidor y del héroe”.
Borges e il tango
Uno sguardo trasversale rivolto alle differenti espressioni artistiche e culturali che lo stesso Borges ha adottato nel corso della sua feconda attività di intellettuale, come emerge anche dalle quattro conferenze sul tango che l’autore argentino ha tenuto nell’ottobre del 1965 in un appartamento in calle General Horns 82, a Buenos Aires. Quattro incontri le cui registrazioni sono recentemente tornate alla luce, trascritte e date alle stampe con la cura di Martín Hadis, ed infine pubblicate in edizione italiana per i tipi di Adelphi (Jorge Luis Borges, “Il tango”, Adelphi 2019, edizione italiana a cura di Tommaso Scarano, pp. 170, € 14,00).
Fin dalle prime pagine l’indagine sul tango offerta da Borges si rivela l’esplorazione di una forma di espressione popolare che lo scrittore riporta al carattere originario, lontano dalla celebre definizione del tango come “un pensiero triste che si balla”, attribuita a Enrique Santos Discépolo da parte di Ernesto Sábato del suo libro “Tango, discusin y clave”, pubblicato nel 1963 e dedicato allo stesso Borges. Nella sua prima conferenza, infatti, Borges evidenzia due incongruenze in questa descrizione: «La prima è “pensiero”: non credo che il tango sia assimilabile a un pensiero, ma a qualcosa di più profondo, a un’emozione. La seconda è l’aggettivo “triste”, che non si può davvero attribuire ai primi tanghi». Per Borges il tango affonda le proprie radici in quell’immaginario abitato anche da altri archetipi capaci di raccontare l’Argentina al di fuori dei suoi confini, quali la “pampa” e il “gaucho”: «il gaucho è uno dei personaggi del tango, anche se probabilmente non conobbe mai quella musica, né ballò mai quel ballo».
Una Buenos Aires tra compadre, la donna di vita, i niños bien
Secondo l’autore il tango delle origini rispecchiava il clima dei quartieri malfamati di città quale Rosario, La Plata ma soprattutto della capitale Buenos Aires, ne incarnava i valori animati da un senso dell’onore vitale e spietato, dove al coltello si affiancano la chitarra e il violino – gli strumenti originari prima dell’avvento del bandoneón –, con attori principali figure quali il compadre, la donna di vita, i niños bien.
Un racconto costellato di digressioni, nel quale Borges evoca anche i suoi riferimenti letterari, primo tra tutti Walt Whitman, e in cui comunque emerge una «visione, parziale e riduttiva, che Borges ebbe del tango, del quale celebrò esclusivamente la fase iniziale, mentre svalutò e rifiutò quasi con caparbietà l’evoluzione dei decenni successivi», come annota Tommaso Scarano nel testo “Un’elegia in quattro puntate” che accompagna questi scritti borgesiani.
In quest’ottica appare emblematico che proprio in quel 1965, mentre lo scrittore argentino lavorava alle sue conferenze, Astor Piazzolla, anima del nuevo tango e artista mai citato in queste pagine, pubblicava il disco “El Tango”, nel quale per la prima volta venivano musicati proprio testi dello stesso Borges. (© Gazzetta di Parma)