Budapest Concert
Keith Jarrett, «Budapest Concert», ECM 2020, 2 CD
Difficile ascoltare questo disco senza pensare al recente annuncio del ritiro di Keith Jarrett per motivi di salute, di cui abbiamo dato conto qualche settimana fa anche su queste pagine. Difficile smarcarsi dalle tentazioni celebrative e un poco retoriche che potrebbero farci definire questo lavoro una sorta di testamento artistico di un grande musicista. Difficile, infine, non collocare comunque questo disco in fondo a una parabola creativa tra le più feconde nel panorama musicale degli ultimi cinquant’anni, ultimo tassello (almeno per ora) di un mosaico che il pianista statunitense ha saputo impreziosire con significative pietre miliari, plasmate sia con la collaborazione di alcuni compagni di viaggio sia, per così dire, “in solitaria”. E proprio a quest’ultima dimensione che appartiene questo doppio disco, elemento, quello del concerto “in solo”, che aggiunge se possibile ancora maggiore enfasi a una lusinga simbolica da maneggiare con cura per evitare una sorta di deriva celebrativa alquanto fuori luogo.
Registrato alla Béla Bartók National Concert Hall durante il suo ultimo tour del 2016, “Budapest Concert” ci restituisce un Jarrett decisamente ispirato, felicemente impegnato in questa ripresa dal vivo avvenuta due settimane prima del concerto di Monaco pubblicato sempre dalla ECM di Manfred Eicher nel 2019. Disegnato come una lunga e variegata suite in dodici parti, alle quali si aggiungono due brani fuori programma come “It’s A Lonesome Old Town” e “Answer Me”, questo disco si apre con i quasi quindici minuti del primo brano, una densa e multiforme peregrinazione estemporanea lungo i meandri di una tastiera che diviene al tempo stesso ricca tavolozza di sfumature timbriche e materia grezza da plasmare con accenti ora irrequieti ora più ponderati. Una sorta di rincorsa a raccogliere un materiale musicale frastagliato ma rigoglioso, che custodisce idealmente i germi dai quali germoglieranno le parti successive.
Una sequenza, quella tratteggiata dal pianista, che offre un indicativo esempio di come l’arte della composizione improvvisata si confermi uno dei campi di indagine privilegiati della fantasia jarrettiana. Uno spazio di sviluppo creativo che ora imbocca la strada di una reiterata e trascinante scansione ritmica come nella parte terza, ora si libra su panorami più liricamente dilatati della parte ottava. Un percorso che trova infine la sua sublimazione della dodicesima e ultima parte, non a caso sottotitolata “Blues”, dove il musicista pare omaggiare quell’istinto al racconto piacevolmente immediato che, da “The Köln Concert” in poi, emerge di tanto in tanto nel corso della sua discografia quale vena carsica sulla superficie di una visione musicale via via sempre più complessa e articolata.
Un disco prezioso, insomma, la cui molteplice densità di spunti merita di essere decantata attraverso ascolti successivi e che ci restituisce ancora una volta una pregnante testimonianza di quanto significativa sia la lezione di Keith Jarrett per il pianoforte jazz, e non solo. (© Gazzetta di Parma)